La pedagogia come Forrest Gump
Editoriale rivista n. 2 | Aprile-Giugno 2024
Franco Frabboni: la pedagogia come Forrest Gump
La direzione di “Infanzia”
In questo numero di “Infanzia” si festeggiano i 50 anni della rivista fondata da Piero Bertolini e Franco Frabboni nel 1973. Per ricordare il cinquantennale è stato organizzato a Bologna un seminario di studi dal titolo “Immaginare l’Infanzia” di cui questo numero raccoglie gli atti.
Come sempre sono in ritardo con la scrittura dell’editoriale che avevo comunque già strutturato nella mia mente come un testo leggero nel quale ripercorrere quanto realizzato in questi 50 anni e quanto ancora possiamo fare, insieme, pensando all’implementazione del sistema integrato 0-6, alla diffusione dei servizi e dei coordinamenti pedagogici laddove ancora carenti, per la qualificazione dei servizi e del personale.
Poi ho letto, come molti di voi, i resoconti dei fatti degli ultimi giorni, di Pisa e Firenze; come voi ho visto le immagini riportate soprattutto dal tam tam dei social e a questo punto non mi sento più in vena di festeggiare alcunché.
I servizi e le scuole dell’infanzia sono i primi luoghi in cui le istituzioni incontrano i bambini e le bambine e lo fanno ispirandosi ai valori della democrazia, dell’educazione alla pace e alla non violenza, alla gestione autonoma dei conflitti. Sono luoghi in cui si apprende il rispetto per l’altro, la solidarietà con il più piccolo (che a volte è anche il più debole), che è necessario negoziare insieme regole e comportamenti condivisi per stare insieme. Si gettano le basi per lo sviluppo dell’autonomia che è sia sociale e affettiva sia cognitiva, si pensa insieme ai bambini anche rispetto a temi importanti e “filosofici”, affinché siano in grado di scegliere, ovviamente entro un non ampio spettro di opzioni, quello che per loro è giusto o sbagliato.
All’adulto il compito di contenere, indirizzare, supportare, mediare, rilanciare... perché è l’adulto che è adulto, e ad esso è richiesto di essere capace di svolgere tali funzioni. L’adulto rappresenta, in un nido e in una scuola dell’infanzia, la comunità sociale più ampia anche nei suoi ruoli di indirizzo, normativi e di contenimento. In tal senso, l’educazione è politica, come affermava Bertolini, non tanto perché incarna e agisce situazioni di potere e veicola il consenso (il potere dell’adulto sul bambino e sul suo percorso formativo), quanto piuttosto poiché assume alcuni valori e li incarna nella prassi. Valori che, essendo le istituzioni educative parte di un sistema sociale e comunitario più ampio, dovrebbero risuonare nell’intera comunità la quale, proprio grazie a questa risonanza, si fa educante.
I fatti di Pisa e Firenze ci dicono che, forse, la pedagogia della cura, dell’ascolto, del pensiero critico non sono più adatte per questo contesto sociale: che cresciuti i bambini e le bambine di cui ci occupiamo, un giorno adolescenti e non ancora adulti, si troveranno un “mondo” troppo distante, incapace di dialogo, di ascolto e di contenimento non violento.
Varrebbe la pena di interrogarsi se questo rappresenti il fallimento della nostra pedagogia o di un certo mondo adulto; se il problema è il secondo, allora abbiamo ancora tanto da lavorare.
Il 17 maggio di quest’anno ci ha lasciato all’età di 89 anni Franco Frabboni, che di questa rivista è stato uno dei protagonisti fin dalla prima ora, col suo fondatore e compagno di strada Piero Bertolini e poi sempre, di fatto, condirettore. Il suo ultimo articolo qui è stato, per una strana coincidenza verrebbe da dire, nel n. 3 del 2016, quando dedicammo alla “Pedagogia dell’infanzia di Piero Bertolini” un focus, a dieci anni dalla sua scomparsa. Un articolo, quello di Franco, che col titolo “La pedagogia di confine” rendeva molto bene il senso di un percorso che li aveva visti lavorare insieme pur nelle rispettive diversità, nella difesa dell’educazione 0-6. Dopo quell’articolo, si è come “ritirato dalle scene”, lui che sul palcoscenico della pedagogia italiana ha recitato da autentico protagonista i suoi testi. Pochi pedagogisti hanno avuto il successo di pubblico che lui ha avuto. Non un successo legato a mode effimere, ché poche cose sono (dovrebbero) essere indigeste alla pedagogia come le “mode”, le quali passano rapidamente di moda mentre i tempi del cambiamento in educazione sono di tutt’altra specie.
Eppure Franco Frabboni ha avuto il grande merito di far diventare la pedagogia fra gli anni Settanta e Ottanta quasi “di moda”, svecchiando il suo guardaroba fatto di un linguaggio paludato e spesso autoreferenziale, incapace di cogliere le istanze educative che venivano dal territorio. La vera “pedagogia laica” era quella che lui descrisse per primo, liberandosi di quell’altra pedagogia e occupandosi di campi gioco e case di vacanza, di tempo libero e “botteghe culturali” del territorio, persino dei bar, luoghi la cui socializzazione marginale (la cui “cultura”) li rendeva se non ambienti educativi, certamente ambienti di formazione. E poi lui che scrive nell’editoriale del n. 2/2013 di questa rivista: «Petroniano da sempre, da anni trascorro il mio agosto a Lido Adriano (RA). Adoro la Romagna guascona e cortese, progressista e solidale, gioiosa e tollerante. Lo stabilimento balneare è un inimitabile teatro dove mamme e babbi recitano - sia in salsa autoritaria, sia in salsa libertaria – la relazione genitori/figli. Sulle loro sonore divergenze timbro il mio tagliando quotidiano intitolato alla “Pedagogia da spiaggia”».
Figlio dichiarato del problematicismo bertiniano, ancorché criticamente rivisitato, che lo ha portato ad impegnarsi nella ricerca pedagogica come nella politica per affermare il diritto dell’infanzia ad avere un’Educazione (con la E maiuscola), Franco Frabboni rimane un pedagogista inimitabile nel suo linguaggio e stile argomentativo e chiunque tentasse, anche sommessamente, di copiarlo, verrebbe immediatamente scoperto.
Nei tre anni dal 2013 al 2015 Frabboni ha firmato tre editoriali di Infanzia, uno per ogni anno. Gli ultimi. Le sue critiche alle “Ministre dei primi due lustri del secolo” sono feroci: accusate senza mezzi termini di “ignoranza pedagogica” per sostenere un’idea dell’infanzia protesa ad anticipare ingressi e apprendimenti scolastici in funzione di un ipotetico successo futuro. In questi editoriali prendeva via via corpo un pessimismo della ragione che superava l’ottimismo della volontà che in Frabboni è sempre stato un tratto vitale. Vedeva incrinarsi un progetto di scuola e di educazione dell’infanzia metaforicamente rappresentata come una diligenza assediata da tribù di pellerossa: le Destre illiberali e padronali (i Piedi neri), il Mercato teso alla privatizzazione e alla competizione selettiva (i Soux), l’industria mediatica omologante a cui sacrificare la propria libertà di pensare e immaginare (gli Apache).
Franco coglieva il crescente perturbante dilagare di pulsioni intolleranti e aggressive anche tra «scolari che stanno tramutando la vita di classe in una terra-di-nessuno dove, senza freni inibitori, giocano al “bullismo”, alla trasgressività, al vandalismo», esito forse di «prime stagioni della vita dove è ormai sepolto ogni innamoramento edipico e, conseguentemente, l’accettazione del Super-Io domestico».
Franco scriveva in questi ultimi editoriali di una “scomparsa dell’infanzia” scippata di quelle prerogative che la rendono riconoscibile come tale: il corpo in movimento, le sensibilità, il gioco e l’immaginario, la curiosità in saziabile di conoscenza, intravedendo nella scuola non un fortino pedagogico in difesa di questa identità, ma un luogo prossimo alla resa.
Aggressivo e icastico nel linguaggio con cui attaccava una politica che, a suo parere, uccide il futuro, Franco Frabboni rimane uno strenuo, razionale difensore dell’infanzia e della sua scuola per la quale si è pedagogicamente impegnato sempre: «Per le bambine e i bambini frequentare la scuola tre-sei significa rubare gli occhi a Forrest Gump, significa disporre di sguardi che penetrano nel loro mondo di cose e di valori. Di più: significa guardare con la testa stralunata, persa nel vuoto. Felici di rincorrere una “piuma” che volteggia in cieli illuminati dal loro sorriso. Mai sazi di azzardare lo scacco dell’inattuale e dell’ignoto».