Due pedagogie del gioco

 

Nelle istituzioni educative 0-6 il gioco è “il lavoro” del bambino, come ebbe a dire la Montessori, cioè l’attività in cui massimo è l’impegno del bambino e da cui ricava il “compenso” più importante: apprendimenti, abilità, conoscenze…

La pedagogia del gioco riguarda l’insieme delle esperienze ludiche del bambino (quelle spontanee e quelle guidate) dal punto di vista delle potenzialità educative che rivestono (compresi modelli culturali che si trasmettono, valori ecc.). Essa si definisce progressivamente nella modernità su due fondamentali direttrici, tuttora compresenti e che, a seconda delle sensibilità emergono con maggiore o minore rilevanza. Una è quella che promuove lo sviluppo di modalità didattiche che, utilizzando dispositivi ludici, è orientata a rendere più interessante e piacevole, quindi più efficace il processo di insegnamento/apprendimento.

John Locke nella sua opera Pensieri sull’educazione (1693), dedica un’attenzione particolare ai giocattoli, di cui mette in evidenza la gestione da parte del bambino e dell’educatore; descrive l’efficacia didattica di giochi con i dadi e le carte per imparare l’alfabeto, delle illustrazioni nei libri per bambini, e afferma che il progresso nella conoscenza dell’infanzia ci consentirà di predisporre dei metodi e delle tecniche tali da rendere sempre più interessante e piacevole l’apprendimento, come un gioco. È così che si sviluppa, arrivando ai giorni nostri con le più moderne tecnologie didattiche, l’idea pedagogica che Aldo Visalberghi ha definito “Ludiforme”, cioè il dare forma ludica ad attività che si connotano come giochi il cui fine non si esaurisce con “la fine” del gioco, ma presuppone in chi li realizza e li promuove, una intenzionalità di apprendimento che va al di là del gioco. Se con i bambini gioco con una tombola degli animali, non è solo per il piacere del gioco in sé, ma anche perché i bambini prendono familiarità con le figure di animali associate ai loro nomi. Questo è un esempio piuttosto tradizionale, si pensi agli esiti più moderni dell’industria dell’educational tecnoludico, ai giochi e giocattoli “educativi”, fino ai Children Museums, vere e proprie installazioni in cui i bambini imparano in presa diretta con materiali di

vario tipo, per prove ed errori.

La seconda direzione è quella che prende Rousseau e il suo Émile (1762) come punto di riferimento. Qui il gioco diventa, per certi aspetti, il paradigma di una “antipedagogia”. Rousseau ci invita a riflettere sul fatto che nessuno insegna ai bambini a giocare, ma essi quando giocano entrano direttamente in rapporto con gli elementi basilari su cui si formano le più diverse conoscenze.

L’adulto quindi non deve fare altro che “lasciar giocare” il bambino offrendogli un ambiente che gli consenta di inter-agire attraverso il corpo e il movimento, i sensi e la manualità, la fantasia e l’intelligenza con i suoi elementi grezzi e naturali. È quello che Rousseau esprime con il concetto di “educazione negativa”, che cerca di intervenire meno possibile con insegnamenti diretti e formali; un’educazione che si basa più sul “togliere” che sul “mettere”. In altre parole, è il bambino che fa il gioco.

Qui il rapporto fra valore formativo del gioco e sua strutturazione materiale è inversamente proporzionale. Secondo questo modello, l’adulto non “fa giocare” il bambino, ma gli mette a disposizione un ambiente, un tempo e dei materiali il più possibile liberi da sovrastrutture, perché sia il bambino stesso a riempire e a dare forma ai suoi giochi. All’adulto spetta il compito di creare le condizioni minime e indispensabili, l’atteggiamento o la cornice metodologica nella quale il bambino si può muovere non seguendo il percorso di un gioco pre-formato, ma sulla base della propria intenzionalità ludica.

Sarebbe interessante che in ogni nido e scuola dell’infanzia si riflettesse (anche con i genitori) su quale pedagogia del gioco ci si orienta, quale sia maior e quale minor, rispetto a spazi, materiali, stile didattico.

 

 

Roberto Farné

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