Editoriale rivista n. 3 Luglio/Settembre 2017
Roberto Farné
Di che arte stiamo parlando…?
Anche quando un individuo costruisce un castello in aria,
interagisce con gli oggetti che costruisce nella sua fantasia
(John Dewey)
Di che cosa parliamo quando usiamo il termine “arte” in ambito educativo? È un chiarimento necessario al fine di evitare equivoci connessi alla complessità di significati di questa parola e alle sue molteplici declinazioni (artista, opera d’arte, corrente artistica ecc.). Un buon dizionario della lingua italiana ci dice che «Arte è: 1) qualsiasi forma di attività dell’uomo come riprova o esaltazione del suo talento inventivo e della sua capacità espressiva; 2) Qualsiasi complesso di tecniche e metodi concernenti una realizzazione autonoma o una realizzazione pratica nel campo dell’operare» (Devoto Oli). Dunque il punto zero, la base da cui partire, non è una idea platonica di arte alla quale far corrispondere determinate opere, ma l’esperienza umana che si definisce nel processo ideativo-produttivo di qualcosa: pensiero e azione, teoria e pratica, mente e mano-corpo… Tutto il resto, decidere se quel prodotto sia qualcosa di artistico o non lo sia, è questione che riguarda categorie che cambiano nella storia e nella cultura di una società. Si decide (chi lo decide?) che un normale utensile come un vaso greco del V secolo a.C. con determinate decorazioni è un’opera d’arte, così come la testa di toro fatta da Picasso assemblando un sellino con un manubrio di bicicletta. In campo musicale: il Jazz è arte? Il dibattito è ancora aperto.
Una certa pedagogia di impianto neoidealista definiva l’educazione estetica come educazione all’arte tout-court, secondo i canoni culturali che ponevano al centro la contemplazione/comprensione dell’opera d’arte codificata come tale: un sonetto di Petrarca, un quartetto di Mozart, una scultura di Donatello ecc. «Lo splendido sole dell’opera d’arte – ha scritto Benedetto Croce – può non essere sostenuto dall’occhio ancora debole dei bambini e dei fanciulli».
In altre parole l’infanzia, per la sua immaturità, si riteneva che non fosse pronta per il rapporto con l’arte (espressione suprema dello spirito), che poteva avvenire solo con il progredire dello sviluppo psicologico e intellettuale della persona. È la ragione per cui musei, gallerie d’arte, siti archeologici, teatri, non erano ritenuti luoghi adatti ai bambini, a meno che non si procedesse ad operazioni di infantilizzazione (banalizzazione): il teatro diventa teatrino, la letteratura si adatta a raccontino, il disegno diventa disegnino, la canzone canzoncina e così via. E la pedagogia idealista – Gentile e Lombardo Radice sono espliciti in questo senso – intendeva spazzare via tutto questo ciarpame di infantilismo didattico. Si trattava allora di stabilire quale “Arte” fosse adatta ai bambini per avviarli a un’educazione estetica intesa in quel senso: qui, nel passare all’atto pratico dell’educazione, l’idealismo fallì miseramente, cadendo spesso in quello stesso vizio di infantilismo che voleva evitare.
La rivoluzione copernicana, se così si può dire, sul piano psicopedagogico, si deve a John Dewey, a Maria Montessori, a Jean Piaget, che hanno messo al centro il bambino come protagonista attivo della sua formazione (non solo ricettivo, contemplativo), il suo corpo e i suoi sensi come dispositivi essenziali dell’intelligenza, il gioco, l’immaginazione. Un cambiamento radicale del punto di vista per cui l’estetica diventa ciò è nel suo significato originario: aisthesis, percepire attraverso la mediazione dei sensi; e sul piano educativo: portare un bambino a dare senso (significato), linguaggio, alle esperienze sensoriali che sono anche, sempre, emozionali.
È qui che le arti diventano dei formidabili contenitori di esperienze per l’infanzia, non perché si pensi che il bambino è “artista” (non lo è), ma perché è artefice: la sua “arte” è quella del suo fisiologico bisogno di essere attivo, del fare-disfare-rifare, del chiedere perché, dell’esprimere con il proprio corpo in movimento, con le proprie mani, istanze non altrimenti esprimibili, persino creative. Perché questa pedagogia sia fattibile dobbiamo porci una domanda: quale educazione estetica ha formato educatrici e insegnanti?
(Questo numero monografico è interamente dedicato alla sezione “Argomenti” della rivista e proseguirà nel prossimo numero - 4, ottobre/dicembre - con la parte “Esperienze”).
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Infanzia, n. 3 luglio-settembre 2017