L’incompreso, difficile mestiere di educatrice d’infanzia

 

 

Chiara Bitella

 

Qualche settimana fa è giunto alla redazione di Infanzia il contributo di Chiara Bitella che pubblichiamo in questo numero come editoriale.

Un testo breve ma incisivo, perché denuncia con delicatezza ma fermezza il permanere di posizioni che credevamo, e speravamo, superate rispetto alla percezione sociale del mestiere di educatore nei servizi per l’infanzia e, più in generale, a quella dei professionisti della cura e dell’educazione per l’infanzia.

Dedicando molte energie e tempo alla formazione in servizio di insegnanti ed educatori impegnati nel settore 0-6 ancora troppo spesso rilevo, e con me molti altri colleghi, la difficoltà di questi professionisti nel vedere riconosciuto al nido e alla scuola dell’infanzia il ruolo educativo centrale che queste istituzioni rivestono e l’importanza del sostegno e della cura qui offerti da preziosi professionisti, per il pieno sviluppo dei bambini e per il loro benessere. Non sono ancora sufficienti gli esiti delle ricerche di matrice pedagogica che già dalla fine del 1800 rivendicavano il ruolo decisivo degli interventi educativi prescolastici per la crescita emotiva, sociale e intellettiva dei bambini, soprattutto di quelli appartenenti alle classi sociali più marginali e fragili. Non i dati delle ricerche più attuali di matrice neuroscientifica che evidenziano come la qualità dell’intervento educativo sia assolutamente decisivo soprattutto nei primi 1000 giorni di vita. Non ancora, i dati degli studi di natura economica che hanno messo in luce la correlazione fra investimento nei servizi per l’infanzia e crescita economica di un paese.

Le professioni educative e di cura producono cultura, ricchezza economica, benessere psicologico e fisico, sviluppo cognitivo e sociale ma sono ancora percepite come “pulire un sedere” e “far giocare i bambini”...

Come affermava Nanni Moretti in un suo celebre film “Continuiamo così. Facciamoci del male”.

 

La Direzione di Infanzia

 

 

Durante una telefonata con mia madre, in cui le raccontavo la giornata di lavoro al nido appena trascorsa, lei mi disse una frase che mi gelò per un attimo il sangue: “Ma hai studiato così tanto per pulire il sedere dei bimbi?”. La ricordo come se fosse una pugnalata oltre che una incredibile mancanza di rispetto verso ciò che facevo. Ma lei voleva che diventassi un medico, un’insegnante di liceo, un avvocato e non si capacitava di tanti anni di studio, di corsi di formazione, di tirocini svolti per poi vedermi “pulire il sedere dei bimbi”. Ci sono rimasta davvero male, poi ci ho riflettuto ed effettivamente, a livello sociale, l’insegnante di nido d’infanzia, l’educatrice, per intenderci, non è presa in grande considerazione e lo dimostrano gli stipendi incredibilmente miseri che percepiamo. Eppure, abbiamo studiato, esiste un corso di laurea, preposto alla formazione di questa figura professionale, e non essendo sufficiente la teoria (per fortuna), mentre lavori, partecipi a diverse supervisioni con psicologi e a numerosi corsi di aggiornamento con esperti della prima infanzia; ti metti in discussione costantemente, perché il mondo dei bimbi è fatto di ascolto, osservazione, contatto: la relazione è alla base di tutto, ma di certo non la si impara sui libri. Il lavoro coi bimbi è fatto di corpo: il corpo come mediatore.

Capisco che per un occhio esterno e inesperto, pulire un musetto, lavare il sederino, mettere i calzini, aiutare il bimbo a fare da solo, cantare una canzone, accarezzarlo prima che dorma, non risulta un lavoro di alto profilo. Invece lo è ed è anche faticoso. Sostenere la relazione è complesso anche con i cuccioli d’uomo. Certo non parliamo loro di filosofia, non citiamo Kant, Rousseau né leggiamo i Promessi Sposi di Manzoni e non spieghiamo loro le teorie di Freud e Piaget, ma sosteniamo il loro sguardo e la loro curiosità, siamo accanto a loro quando scoprono come funziona il mondo, come funziona il loro piccolo corpo, quando hanno mal di pancia, quando ricevono un morso, quando cadono e credono di andare in frantumi e quando hanno nostalgia di mamma e papà. L’attenzione nei loro confronti non è mai sufficiente perché si muovono in fretta, si stancano presto di un gioco, ma se piace ci ritornano poco dopo e magari quel gioco è nelle mani di un altro bimbo, e allora arriva la frustrazione, piangono e devi spiegare che non tutto è di loro proprietà, che esiste un tempo per giocare, un tempo per lasciare il gioco, un tempo per aspettare. E come si fa ad aspettare? Noi “grandi” sappiamo aspettare?

Gli adulti, siano essi genitori, educatori, insegnanti ecc., hanno una responsabilità enorme nei confronti di un bambino, al quale bisogna saper rispondere sul perché le cose funzionano così. Quando in una sezione hai 14-15 bambini piccoli devi fare i conti specialmente con te stesso: la stanchezza, i rumori forti, le voci che si sovrappongono e l’ansia costante che si facciano male. Ecco: noi educatrici siamo sempre allerta e in ansia, perché dobbiamo rispondere al genitore anche del minimo graffietto che un bimbo presenta sul suo corpo, perché a casa non ce l’aveva. Talvolta arrivano delle accuse molto pesanti da sostenere, come il fatto di non essere abbastanza attente, e ti verrebbe da dire banalmente: “Prego, provi lei a stare per 7 ore continue con 14 bambini di un anno o poco più”, ma la risposta sarebbe: “Beh? Questo è il tuo mestiere”. Solo qualche genitore sensibile e attento ci guarda con ammirazione e ci dice: “Lo faccio fatica con uno, non so voi come facciate!”.

Poi c’è il bimbo che ti sta antipatico: sì, c’è! E ti vergogni ad ammetterlo perché è un bimbo e come potrai mai spiegare qualcosa del genere, chi ti potrà comprendere? Allora cerchi di capire perché, che cosa scatena in te, il suo modo di fare, cosa ti ricorda, cosa ti muove? E con una certa titubanza ne parli con le tue colleghe, che essendo “umane”, provano la stessa cosa che provi tu, e allora ricominci a respirare. Ti vergogni un po’ meno.

Quanto è difficile fare i conti con tutte le parti presenti in noi, tutti i giorni, perché i bimbi questo fanno: ti lanciano violentemente dentro il tuo essere e devi guardare ciò che non ti piace, di te stesso. Abbiamo bisogno di comprensione e di cura, noi adulti che facciamo questo mestiere, proprio come i bimbi.

La società lo sa, ma spesso lo dimentica, rincorrendo il mito dell’efficienza e della velocità. Penso che senza lo sviluppo dell’empatia nei contesti lavorativi, ma soprattutto in quello educativo e dove si lavora prendendosi cura di altri, niente ha senso e anche la ragione e la logica perdono efficacia se non ci sono le emozioni che le sostengono. Se l’adulto riceve cura, potrà curare meglio il nostro futuro: che sono i bambini, figli di tutti. Mi auguro che la nostra figura professionale riceva maggiore riconoscimento a partire dai Comuni e dalle cooperative che ci assumono, talvolta dequalificandoci, come se la laurea non l’avessimo.

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